LA CORTE DEI CONTI 
           Sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna 
 
    in composizione monocratica, nella persona del consigliere  Maria
Elisabetta Locci, ha pronunciato la seguente ordinanza,  sul  ricorso
iscritto al n.  24.830  del  registro  di  segreteria,  proposto  dai
signori: 
        1. Nicola Leone, nato a Sassari il 28  ottobre  1945  (codice
fiscale: LNENCL45R28I452V;  pec:  nleone45@postecert.it);  2.  Pietro
Antioco Corda, nato a Sassari  il  4  giugno  1935  (codice  fiscale:
CRDPTR35H04I452K); 3. Enrico Altieri, nato a  Cagliari  il  5  luglio
1939 (codice fiscale: LTRNRC39L05B354F); 4.  Mauro  Rosella,  nato  a
Roma il 27 luglio 1944 (codice fiscale: RSLMRA44L27H501C); 5. Alberto
Lazzardi,  nato  a  Roma  il   14   marzo   1948   (codice   fiscale:
LZZLRT48C14H501M); 6. Valerio Cicalo', nato a Isili  il  14  febbraio
1942 (cod.  fisc.:  CCLVLR42B14E336Z);  7.  Ettore  Angioni,  nato  a
Cagliari il 25 aprile 1941  (codice  fiscale:  NGNTTR41D25B354U);  8.
Gianni Caocci, nato a Cagliari il 25 settembre 1942 (codice  fiscale:
CCCGNN42P25B354Y); 9.  Gianluigi  Ferrero,  nato  ad  Iglesias  il  7
novembre 1936 (codice fiscale: FRRGLG36S07E281J); 10. Giorgio  Longu,
nato   a   Cagliari   il   9   settembre   1933   (codice    fiscale:
LNGGRG33P09B354E), tutti rappresentati e difesi dall'avvocato  Nicola
Leone, che rappresenta anche se' medesimo, presso il cui studio, sito
in Cagliari, via Machiavelli n. 100, hanno eletto  domicilio,  contro
l'Inps,  Gestione  dipendenti  pubblici,  in   persona   del   legale
rappresentante pro tempore, con sede legale  in  Roma,  via  Ciro  il
Grande, n. 21 (codice fiscale: 80078750587), e la Direzione regionale
INPS  della  Sardegna,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro
tempore, con sede in Cagliari, viale Armando Diaz n. 35. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con atto depositato in data 31 luglio 2019  i  ricorrenti,  hanno
chiesto: a) in via principale, che venga accertato  il  loro  diritto
alla integrale corresponsione del  trattamento  pensionistico,  senza
l'applicazione della decurtazione percentuale prevista  dall'art.  1,
comma 261 della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio  di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2019  e  bilancio
pluriennale per il triennio 2019-2021»;  b)  in  subordine,  che  sia
accertato che l'Inps non possa sottoporre al prelievo di cui all'art.
1, comma 261,  le  pensioni  erogate  ai  ricorrenti  se  non  previa
verifica che, ricalcolate virtualmente  le  pensioni  con  il  metodo
contributivo, con l'utilizzo dei parametri per  il  tempo  in  cui  i
singoli ricorrenti sono stati collocati a  riposo,  la  pensione  che
sarebbe stata corrisposta non e' inferiore a  quella  attualmente  in
godimento. 
    A tali domande e' connessa  quella  di  condanna  dell'INPS  alla
restituzione delle somme trattenute, in ogni  caso  con  vittoria  di
spese  ed  onorari  del  giudizio,  con  distrazione  a  favore   del
difensore, dichiaratosi antistatario. 
    E' stata, altresi',  eccepita  la  illegittimita'  costituzionale
della norma indicata e, conseguentemente,  e'  stato  richiesto  che,
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione
come prospettata (e per altri motivi  di  incostituzionalita'  meglio
visti dal Giudice) siano rimessi gli atti alla  Corte  costituzionale
per lo scrutinio di costituzionalita', rilevando che  nella  denegata
ipotesi in cui la Corte costituzionale ritenesse le  norme  impugnate
conformi a Costituzione, previa, occorrendo, consulenza tecnica,  sia
comunque dichiarato che i ricorrenti non possono essere  assoggettati
al prelievo di cui si tratta perche' le loro pensioni, calcolate  con
il metodo contributivo risulteranno pari o  addirittura  superiori  a
quelle in godimento e, quindi, non  soggette  al  prelievo  ai  sensi
dell'art. 1, comma 263 ultimo periodo della legge n. 145 del 2018. 
    I ricorrenti hanno premesso di essere stati magistrati,  ordinari
(Corda,  Altieri,  Angioni,  Ferrero,  Rosella,  Cicalo'),   militari
(Lazzardi), e contabili (Leone, Longu), ovvero avvocati  distrettuali
dello Stato (Caocci), e di essere stati collocati in quiescenza  dopo
il  compimento  degli  anni  settanta  e,  taluno,  alla  soglia  del
compimento di anni settantacinque, ad eccezione del  dott.  Lazzardi,
collocato a riposo ai sensi della legge 24 dicembre 2007, n. 247, con
decorrenza dal 1° luglio 2010, con anni 37 e mesi 1  di  servizio  e,
comunque, all'eta' di 62. 
    La pensione in  godimento  e'  stata  liquidata  con  il  sistema
retributivo e, per i ricorrenti Leone, Angioni,  Rosella,  Cicalo'  e
Caocci, collocati a riposo dal 1°  gennaio  2012,  in  parte  con  il
sistema misto (posto che dal 2012 in poi il calcolo  del  trattamento
viene effettuato, per tutti, con il sistema contributivo). 
    Con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio  per  il
2019), e' stato, per  l'ennesima  volta,  introdotto  un  sistema  di
riduzione dei trattamenti pensionistici loro  attribuiti,  avendo  il
Legislatore disposto all'art.  1,  commi  261  -  268,  testualmente,
quanto segue: 
        261. A decorrere  dalla  data  di  entrata  in  vigore  della
presente legge  e  per  la  durata  di  cinque  anni,  i  trattamenti
pensionistici  diretti  a  carico  del  Fondo   pensioni   lavoratori
dipendenti, delle gestioni speciali dei  lavoratori  autonomi,  delle
forme  sostitutive,  esclusive  ed   esonerative   dell'assicurazione
generale obbligatoria e della Gestione separata di  cui  all'art.  2,
comma  26,  della  legge  8  agosto  1995,  n.  335,  i  cui  importi
complessivamente considerati superino  100.000  euro  lordi  su  base
annua, sono ridotti di un'aliquota di riduzione pari al 15 per  cento
per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro,  pari
al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro  fino  a  200.000
euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a
350.000 euro, pari al 35 per cento per  la  parte  eccedente  350.000
euro fino a 500.000 euro  e  pari  al  40  per  cento  per  la  parte
eccedente 500.000 euro. 
        262. Gli importi di cui  al  comma  261  sono  soggetti  alla
rivalutazione automatica secondo il  meccanismo  stabilito  dall'art.
34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448. 
        263.  La  riduzione  di  cui  al  comma  261  si  applica  in
proporzione  agli  importi  dei  trattamenti   pensionistici,   ferma
restando la  clausola  di  salvaguardia  di  cui  al  comma  267.  La
riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque  alle  pensioni
interamente liquidate con il sistema contributivo. 
        264. Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale,
nell'ambito della loro autonomia, si adeguano  alle  disposizioni  di
cui ai commi da 261 a 263 e 265 dalla data di entrata in vigore della
presente legge. 
        265. Presso l'Inps e gli altri enti previdenziali interessati
sono  istituiti  appositi  fondi  denominati  «Fondo  risparmio   sui
trattamenti pensionistici di importo elevato» in cui  confluiscono  i
risparmi derivati dai commi da 261 a  263.  Le  somme  ivi  confluite
restano accantonate. 
        266. Nel Fondo di cui al comma  265  affluiscono  le  risorse
rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261  a  263,  accertate
sulla base del procedimento di cui all'art. 14 della legge  7  agosto
1990, n. 241. 
        267. Per effetto dell'applicazione dei commi da  261  a  263,
l'importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non  puo'
comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua. 
        268. Sono esclusi dall'applicazione delle disposizioni di cui
ai commi da 261 a 263  le  pensioni  di  invalidita',  i  trattamenti
pensionistici di invalidita' di cui alla legge  12  giugno  1984,  n.
222, i trattamenti  pensionistici  riconosciuti  ai  superstiti  e  i
trattamenti riconosciuti a favore  delle  vittime  del  dovere  o  di
azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto  1980,  n.  466,  e
alla legge 3 agosto 2004, n. 206. 
    Le norme censurate si porrebbero, ad avviso dei  ricorrenti,  nel
solco di una serie di  manovre,  ripetute  nel  corso  del  decennio,
dirette ad intervenire sui trattamenti pensionistici piu' elevati, in
un'ottica quasi punitiva,  giacche'  accompagnate  da  dichiarazioni,
rese da diversi esponenti della classe politica, in forza delle quali
parrebbe che le pensioni elevate non siano assistite  da  un  congruo
versamento di contributi che ne avrebbe giustificato la liquidazione. 
    Per tale aspetto, considerato il  disposto  di  cui  all'art.  1,
comma 263, i ricorrenti hanno precisato di aver chiesto  all'Istituto
previdenziale di provvedere al ricalcolo delle  singole  pensioni  in
godimento, applicando  il  metodo  contributivo,  per  verificare  se
sussistessero le condizioni per non applicare le riduzioni  contenute
al comma 261, senza ricevere risposta alcuna dall'INPS. 
    Difatti,  l'applicazione  dei  criteri   collegati   al   calcolo
contributivo e, soprattutto, della speranza di vita  al  momento  del
pensionamento, porterebbe ad escludere per molti di loro, se non  per
tutti, la riduzione prevista dal comma 261. 
    Pur  non  ignorando   che   ad   alcune   pensioni   di   importo
particolarmente elevato, calcolate con il sistema retributivo  e  con
il criterio dell'ultimo stipendio, non sia corrisposto il  versamento
di contributi adeguati, hanno ribadito che non si potrebbe, in virtu'
di pochi casi clamorosi, colpire un rilevante  numero  di  pensionati
che hanno, invece, regolarmente pagato  i  contributi  in  una  lunga
attivita'  lavorativa,  con   un'anzianita'   contributiva   maggiore
rispetto ai quaranta anni di  servizio  considerati  per  il  calcolo
della pensione (nella specie, i ricorrenti  Angloni,  Longu  e  Leone
avrebbero versato contributi rispettivamente per 49 e oltre 48  anni;
il dott. Cicalo' e l'avvocato Caocci addirittura per circa 52 anni). 
    In ogni modo, nessuno dei ricorrenti avrebbe potuto scegliere  il
sistema di calcolo della propria pensione (ed optare, quindi, per  il
calcolo con il sistema contributivo) in quanto, seppure la  legge  n.
335  del  1995  avesse  previsto  la  possibilita'  di   scelta,   il
decreto-legge 28 settembre  2001,  n.  355  (convertito  dalla  legge
n. 417 del 27 novembre 2001)  aveva  eliminato  questa  possibilita',
stabilendo che l'art. 1, comma 23, secondo  periodo,  della  legge  8
agosto 1995, n. 335,  si  interpreta  nel  senso  che  l'opzione  ivi
prevista e' concessa limitatamente ai lavoratori di cui al  comma  12
del predetto art. 1 che abbiano maturato  un'anzianita'  contributiva
pari o superiore a quindici anni, di cui almeno  cinque  nel  sistema
contributivo.  2.  La  liquidazione  del  trattamento   pensionistico
esclusivamente con le regole del  sistema  contributivo  e'  comunque
concessa a coloro che abbiano esercitato il diritto di opzione, entro
la data di entrata in vigore del presente decreto. 
    Ad avviso dei ricorrenti, l'eliminazione  della  possibilita'  di
tale  opzione  risiederebbe  nella  circostanza  che  molte  pensioni
elevate,  completamente  retributive,  derivanti  da   carriere   sin
dall'inizio  caratterizzate  da  un'alta   retribuzione,   potrebbero
avvantaggiarsi  del  calcolo   tutto   contributivo,   considerazione
supportata dall'intervenuta emanazione dell'art. 1, comma 707,  della
legge n. 190 del 2014 (legge di stabilita' per il 2015), in forza del
quale la pensione calcolata con il sistema contributivo non  potrebbe
superare  l'importo  che  si  sarebbe   ottenuto   con   il   sistema
retributivo. 
    Nell'atto di ricorso sono state svolte ampie considerazioni anche
sulla  misura  concernente  il  mancato  adeguamento  delle  pensioni
all'andamento del costo della vita (comma 260 dell'art. 1 della legge
n. 145 del 2018), anch'essa, ad avviso di parte attrice, connotata da
irrazionalita' e  irragionevolezza,  non  consentendo  alle  pensioni
superiori a tre volte il minimo INPS,  e  in  misura  decrescente  al
salire della pensione, il recupero dell'inflazione. 
    Peraltro, e' stata resa  palese  la  volonta'  di  non  sollevare
questione di illegittimita' costituzionale della norma, ne' e'  stata
formulata domanda di restituzione delle somme a tal fine  trattenute,
volendo circoscrivere la domanda alla riduzione  prevista  dal  comma
261, ma formulando le piu' ampie  riserve  anche  in  ordine  a  tale
riduzione o mancato adeguamento. 
    E' stato, poi, ricostruito il quadro generale nel quale le  norme
sospettate di illegittimita' sono venute ad incidere, a partire dalla
riforma del sistema pensionistico, attuata  con  la  legge  8  agosto
1995, n. 335, che  aveva  previsto  il  graduale  passaggio,  per  il
calcolo  della  pensione,  dal   sistema   retributivo   al   sistema
contributivo,   sistema   contributivo   esteso    alle    anzianita'
contributive maturate a decorrere 1° gennaio 2012  dalla  c.d.  legge
Fornero (decreto-legge 6 dicembre 2011,  n.  20  l,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), e  accompagnato
dal progressivo spostamento nel tempo dell'eta' pensionabile. 
    In seguito, peraltro, il Legislatore, nonostante quanto stabilito
con la riforma da ultimo citata, aveva adottato provvedimenti  con  i
quali si stabiliva l'anticipazione del pensionamento per i magistrati
ancora in servizio (decreto-legge 24 giugno 2014, n.  90,  convertito
con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n.  114;  decreto-legge
27 giugno 2015, n. 83, convertito con  modificazioni  dalla  legge  6
agosto 2015,  n.  132;  e  decreto-legge  31  agosto  2016,  n.  168,
convertito dalla legge 25 ottobre 2016,  n.  197)  e  si  anticipava,
altresi' (decreto-legge n. 90/2014), il pensionamento dei  dipendenti
dello Stato, con costi e aggravi a carico del sistema previdenziale. 
    Tali disposizioni sono state precedute e accompagnate da  diversi
interventi diretti a incidere sui trattamenti pensionistici  elevati.
Cosi': a) l'art. 37 della legge  23  dicembre  1999,  n.  488,  aveva
introdotto un contributo di  solidarieta'  nella  misura  del  2  per
cento. Le somme cosi' prelevate confluivano in un fondo, di cui  alla
legge n. 196 del 1997 (articoli 5 e 9, comma  3),  per  la  copertura
previdenziale di lavoratori in formazione; b) la  legge  24  dicembre
2003, n. 350, all'art. 3, comma 102 prevedeva, per un periodo di  tre
anni, un contributo di solidarieta' nella misura del 3 per cento;  c)
la legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (legge
15  luglio  2011,  n.  111)  disponeva,   in   considerazione   della
eccezionalita' della situazione  economica  internazionale  e  tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica, a decorrere  dal  1°  agosto  2011  e  fino  al  31
dicembre 2014, un contributo di perequazione, pari al 5 per cento per
i trattamenti pensionistici superiori a 90.000 euro lordi annui  fino
a 150.000 euro, nonche' pari al 10 per cento per la  parte  eccedente
150.000 euro; tale soglia veniva elevata al  15  per  cento,  per  la
parte eccedente 200.000 euro, con il decreto-legge 6  dicembre  2011,
n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre  2011,
n. 214 (la norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima con
la sentenza n. 116 del 2013); d) con il decreto-legge 13 agosto 2011,
n. 138 (convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre  2011,
n. 148), veniva introdotto un contributo di solidarieta'  del  3  per
cento per i redditi complessivi di importo superiore a  300.000  euro
lordi annui, sulla parte eccedente il predetto importo,  a  decorrere
dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013, poi  prorogato  a  31
dicembre 2016 con la legge n. 147 del 2013 (legge di  stabilita'  per
il 2014); e) la stessa legge, art. 1, commi 486 e 487,  prevedeva,  a
decorrere dal 10 gennaio 2014 e per un periodo  di  tre  anni,  sugli
importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori  di
forme  di  previdenza  obbligatorie,  complessivamente  superiori   a
quattordici volte  il  trattamento  minimo  INPS,  un  contributo  di
solidarieta' a favore delle gestioni previdenziali  obbligatorie.  La
norma veniva impugnata davanti alla  Corte  costituzionale  che,  con
sentenza n. 173 del 2016, dichiarava  non  fondate  le  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 486,  e  inammissibile
la questione di legittimita' costituzionale del comma 487. 
    Nel descritto contesto, e proprio mentre si approvavano le  norme
di riduzione delle pensioni, il  Governo  adottava  misure  espansive
della spesa con il decreto-legge 28 gennaio 2019, n.  4,  convertito,
con modificazioni,  dalla  legge  28  marzo  2019,  n.  126,  recante
disposizioni urgenti in materia  di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni, tra cui la c.d. «quota 100». 
    Le risorse occorrenti per far fronte alle misure introdotte  sono
state quantificate, per la sola pensione a quota 100, in euro 4.719,1
milioni per il 2019, in euro 8.717,1 milioni per il  2020  e,·infine,
in 9.266,5 milioni di euro per il 2021. 
    La legge di bilancio per l'anno 2019, nel ridurre  i  trattamenti
pensionistici, ha introdotto (art.  1,  commi  255  e  256)  il  c.d.
reddito di cittadinanza, stanziando a tali fini 7.100 milioni di euro
per l'anno 2019, 8.055 milioni di  euro  per  l'anno  2020,  e  8.317
milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2021 e, al comma 256,  al
fine  di  dare  attuazione  a  interventi  in  materia  pensionistica
finalizzati all'introduzione di ulteriori modalita' di  pensionamento
anticipato  e  misure  per  incentivare  l'assunzione  di  lavoratori
giovani,  ha  istituito  un  «Fondo  per  la  revisione  del  sistema
pensionistico,  attraverso  l'introduzione  di  ulteriori  forme   di
pensionamento anticipato e misure  per  incentivare  l'assunzione  di
lavoratori giovani», con una dotazione pari a 3.968 milioni  di  euro
per l'anno 2019, a 8.336 milioni di euro per  l'anno  2020,  a  8.684
milioni di euro per l'anno 2012. 
    Tutte  tali  misure,  ad  avviso   dei   ricorrenti,   andrebbero
finanziate con  la  fiscalita'  generale,  non  essendo  a  tal  fine
sufficiente, all'evidenza, il gettito derivante  dalla  riduzione  di
poche decine di migliaia di pensioni. 
    Peraltro, i  provvedimenti  cosi'  adottati,  dimostrerebbero  le
palesi irrazionalita' e irragionevolezza  delle  norme  censurate  in
ricorso, le  quali  non  rispetterebbero,  per  distinti  profili,  i
principi costituzionali sanciti dagli articoli 2, 3, 23, 35, 36, 38 e
53, della Costituzione, come interpretati dal Giudice delle leggi, in
ragione  delle  considerazioni  che  di  seguito  sinteticamente   si
espongono. 
    1.  In  primo  luogo,  sarebbe  stato  violato  l'art.  23  della
Costituzione, data l'inosservanza sostanziale del procedimento di cui
all'art. 72 della Costituzione, circostanza resa palese, ad avviso di
parte attrice, dall'impugnativa effettuata da trentasette senatori, i
quali avevano sollevato conflitto di attribuzione  tra  poteri  dello
Stato, per la grave compressione dei tempi di discussione della legge
stessa, dopo la presentazione al Senato, da parte  del  Governo,  del
c.d. maxiemendamento. 
    In particolare, si sarebbe impedita l'osservanza del procedimento
ordinario di approvazione delle leggi,  caratterizzato  da  una  fase
necessaria di esame in commissione referente; si sarebbe  violato  il
principio di leale collaborazione che deve informare i  rapporti  tra
gli organi che costituiscono  espressione  dei  poteri  dello  Stato;
sarebbe stato votato un testo non nella disponibilita' dei  senatori,
non essendo stato fornito alcun  testo  definitivo,  ne'  in  formato
cartaceo, ne'  in  formato  elettronico;  infine,  vi  sarebbe  stata
un'inaccettabile totale compressione del ruolo delle Camere  e  delle
loro articolazioni, in favore di  un'accelerazione  del  procedimento
legislativo, senza che il testo del disegno di legge  potesse  essere
discusso in aula e approvato articolo per articolo  e  con  votazione
finale (cfr. punti da 5 a 8 dell'ordinanza della Corte costituzionale
n. 17, dell'8 febbraio 2019, con cui  il  ricorso  per  conflitto  di
attribuzione  e'  stato  dichiarato  inammissibile,   richiamata   in
ricorso).  Peraltro,  e'  stato  osservato,  detto  emendamento,  non
accompagnato da alcuna nota tecnica, avrebbe recepito, per la materia
pensionistica, il contenuto di due progetti di legge,  di  iniziativa
parlamentare, uno presentato alla Camera e dovuto  all'iniziativa  di
deputati della maggioranza parlamentare, ed un altro,  presentato  al
Senato, dovuto all'iniziativa di senatori di minoranza, i  quali,  in
sostanza, miravano ad incidere sull'annosa questione delle cosiddette
«pensioni  d'oro»,  il  cui  elevato   importo   appariva   stridente
nell'attuale contesto socio-economico e  di  sacrifici  imposti  alla
generalita' della popolazione, accomunando pensioni e vitalizi, senza
pero'  considerare  la  differente   natura   degli   emolumenti   (i
trattamenti pensionistici si  diversificherebbero  sotto  il  profilo
della contribuzione, della durata  del  servizio  prestato,  e  degli
importi corrisposti); 
    2. Sarebbe stato del pari violato il  principio  di  uguaglianza,
sancito  dall'art.  3  della  Costituzione,  laddove  si  e'   inteso
stabilire un limite massimo della  pensione  ritenuto  equo,  pari  a
100.000  euro,  al  di  sopra  del  quale  sia  possibile  effettuare
decurtazioni non giustificate. Neppure potrebbe invocarsi  la  natura
solidaristica del prelievo, alla  luce  dei  principi  dettati  dalla
Corte  costituzionale,  in  forza  dei   quali   il   contributo   di
solidarieta',   per    superare    lo    scrutinio    «stretto»    di
costituzionalita',  e  palesarsi  dunque   come   misura   improntata
effettivamente alla solidarieta' previdenziale (articoli 2 e 38 della
Costituzione), deve operare all'interno del complessivo sistema della
previdenza; essere  imposto  dalla  crisi  contingente  e  grave  del
predetto sistema; incidere sulle pensioni piu' elevate  (in  rapporto
alle  pensioni  minime);  presentarsi  come   prelievo   sostenibile;
rispettare  il  principio  di   proporzionalita';   essere   comunque
utilizzato come misura una tantum (sentenze nn. 223/20 12;  116/2013;
173/2016, delle quali sono stati riportati stralci  in  ricorso).  In
particolare, anche un'asserita natura solidaristica del  prelievo  si
porrebbe in contrasto con  i  precetti  costituzionali  di  cui  agli
articoli 3, 23 e 53 della Costituzione. Difatti,  per  un  verso,  la
solidarieta'  del   sistema   tributario   e'   realizzata   con   la
progressivita' del tributo  sui  redditi  mentre,  per  altro  verso,
parrebbe non sussistere  una  precipua  esigenza  di  far  fronte  al
pagamento delle pensioni minime, alla luce delle  dichiarazioni  rese
dal Presidente  dell'INPS,  esplicative  del  fatto  che  qualora  il
bilancio dell'INPS venisse opportunamente depurato dagli strumenti di
assistenza e, lato senso, non pensionistici, si  scoprirebbe  che  il
sistema pensionistico italiano e' solido, la spesa in  linea  con  la
media dei Paesi europei,  circa  il  12%.  Pertanto,  ad  avviso  dei
ricorrenti, si tratterebbe  di  prelievo  da  porsi  a  carico  della
fiscalita' generale, non operando nello stretto  ambito  del  sistema
pensionistico. Ne' le somme derivanti dalle illegittime  decurtazioni
potrebbero far fronte alla rappresentata  esigenza  di  aumentare  le
pensioni inferiori a 780,00 euro mensili; per tale  profilo,  sarebbe
palese l'irrazionalita' e irragionevolezza della  legge,  non  avendo
considerato che, a fronte della  necessita'  di  alcuni  miliardi  di
euro, il gettito derivante dal prelievo sembra non  superi  76  -  80
milioni di euro. A non voler considerare  che,  a  fronte  di  alcuni
milioni di pensioni di minimo importo  non  sarebbero  stati  versati
contributi  sufficienti  alla  base.   Conseguentemente,   violerebbe
certamente  il  principio  di  ragionevolezza   l'assoggettamento   a
prelievo di pensioni  solo  perche'  di  importo  piu'  elevato,  dal
momento che provvedimenti di (maggiore)  equita'  sociale  dovrebbero
essere posti a carico della fiscalita' generale. 
    Analoghe considerazioni andrebbero fatte in merito  al  pagamento
delle prestazioni di  natura  assistenziale,  o  che  beneficiano  di
integrazione al minimo, o di «maggiorazioni  sociali»,  gravanti  sul
bilancio dell'INPS, sprovviste  alla  base  di  contribuzione  (o  al
massimo dotate di contribuzioni modeste e per pochi anni). 
    2.1 Anche il comma 263 della norma  violerebbe  il  principio  di
uguaglianza, esonerando dal prelievo i pensionati le cui pensioni, di
pari o superiore importo, siano state interamente  liquidate  con  il
sistema contributivo. Sarebbero evidenti la disparita' di trattamento
e la irragionevolezza della norma, in  relazione  ai  pensionati  che
hanno avuto la pensione calcolata con il sistema retributivo, qualora
non dovesse essere effettuato il calcolo, virtuale, di tali  pensioni
con  il  sistema  contributivo  per  verificarne  l'importo,  tenendo
altresi' conto della speranza di vita dei pensionati al  momento  del
pensionamento. 
    Cio' a prescindere dalla  considerazione  che,  allo  stato,  non
sembra che possano esservi  pensioni  interamente  liquidate  con  il
sistema contributivo, applicabile alle pensioni di soggetti  iscritti
dal 1° gennaio 1996,  considerazione  che  porterebbe  ad  attribuire
quale unico significato, alla norma richiamata,  l'effettuazione  del
ricalcolo con il sistema  contributivo  e,  qualora  l'importo  della
pensione risulti non inferiore, la  impossibilita'  di  applicare  il
prelievo. 
    3. La norma censurata si porrebbe  in  contrasto  anche  con  gli
articoli 35, 36 e 38 della  Costituzione,  essendo  la  pensione  dei
ricorrenti proporzionata alla elevata qualita'  e  alla  quantita'  -
lunga durata nel tempo - del lavoro  svolto,  cosi'  come  dovrebbero
essere assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori
in caso di vecchiaia (art. 38 della Costituzione). 
    4. Il comma 265 dell'art. 1, nel prevedere che  presso  l'INPS  e
gli altri enti  previdenziali  interessati  sono  istituiti  appositi
fondi denominati «Fondo risparmio sui  trattamenti  pensionistici  di
importo elevato» in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da
261 a 263, senza indicare  la  effettiva  destinazione  delle  somme,
semplicemente accantonate, rivelerebbe, ad avviso dei ricorrenti,  la
natura meramente confiscatoria del prelievo, il  che  condurrebbe  ad
escludere la natura  tributaria  del  medesimo.  Al  riguardo,  hanno
osservato che se e'  costituzionalmente  consentita  -  e  non  senza
condizioni  -  l'espropriazione  della  proprieta'  privata,  non  e'
certamente consentita la confisca dei  legittimi  emolumenti  frutto,
nel  caso  delle  pensioni,   del   prelievo   contributivo   durante
l'attivita' lavorativa. Difatti, in mancanza della nota tecnica della
legge, non sarebbe possibile conoscere le motivazioni del prelievo e,
poiche' la stessa legge nulla dispone sulla destinazione delle somme,
semplicemente accantonate nel Fondo di cui si e' detto, queste, sulla
base  delle  norme   giuscontabilistiche,   non   potrebbero   essere
impegnate. 
    5. Inoltre, poiche' il comma 261 avrebbe aumentato la durata  del
prelievo a ben cinque anni e aumentato, in  maniera  esorbitante,  le
aliquote di riduzione il disposto normativo contrasterebbe anche  con
l'art.  136  della  Costituzione,  per  violazione /   elusione   del
giudicato costituzionale (sentenze n. 173 del 2016 n. 223 del 2012  e
n. 116 del 2013), essendo ammesso un contributo sulle  pensioni  solo
come misura del tutto eccezionale, che non si potrebbe tradurre in un
meccanismo di alimentazione del sistema  previdenziale  (sentenza  n.
173 del 2016 cit.). 
    6. Infine, qualora si volesse ritenere la natura  tributaria  del
prelievo, sarebbe palese la contrarieta' ai parametri  costituzionali
e, fondamentalmente, agli articoli 3 e 53 Costituzione.  Difatti,  la
norma tasserebbe in maniera  diversa,  a  parita'  di  importi  e  di
qualita'  dei  redditi,  i  pensionati  con  pensioni   superiori   a
100.000,00 euro e non tutti gli altri soggetti  dell'ordinamento  con
redditi anche piu' elevati. 
    La  difesa   dei   ricorrenti,   alla   luce   delle   molteplici
argomentazioni contenute  in  ricorso,  e  piu'  sopra  sommariamente
descritte, ha conclusivamente osservato che la sollevata questione di
costituzionalita' sia da ritenersi  rilevante  e  non  manifestamente
infondata, anche alla luce dei precedenti della giurisprudenza  della
Corte costituzionale. 
    In via istruttoria, e' stato chiesto che sia disposta CTU al fine
di verificare l'importo del trattamento pensionistico dei ricorrenti,
laddove calcolato con il sistema  retributivo,  e  che  sia  ordinato
all'INPS di depositare i provvedimenti di liquidazione della pensione
in godimento. 
    L'INPS, costituitosi in giudizio con il ministero degli  avvocati
Alessandro Doa e Stefania Sotgia, ha depositato memoria difensiva  in
data 20 gennaio 2020, con la quale, nel merito, sono state  formulate
conclusioni di rigetto del ricorso, con ogni conseguenza di legge  in
ordine alle spese di lite. 
    In  via  preliminare,  e'  stato  sottolineato  che  la   Sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per il  Friuli-Venezia  Giulia,
con ordinanza del 16 ottobre 2019, ha rimesso  gli  atti  di  analogo
giudizio alla Corte costituzionale e, per motivi di opportunita',  e'
stata chiesta la sospensione del  presente  procedimento,  in  attesa
della decisione del Giudice delle leggi. 
    Nel  merito  e'  stato  sostenuto  che   l'azione   dell'istituto
previdenziale sarebbe pienamente legittima, giacche' effettuata sulla
base delle norme di legge vigenti. 
    Disposizioni con le quali il legislatore avrebbe  perseguito  una
maggiore equita' del sistema previdenziale, in un periodo di risaputa
grave crisi economica del paese,  incidendo,  con  scelta  certamente
ragionevole, solo sui trattamenti  che,  per  il  metodo  di  calcolo
applicato, retributivo o misto, non assicurano il perfetto equilibrio
tra pensione e contributi versati. 
    Inoltre, la ritenuta di cui alla legge n. 145/2018 avrebbe natura
provvisoria, giacche' destinata  ad  avere  effetto  per  il  periodo
predeterminato (5 anni), con carattere di  transitorieta'  e  non  di
definitivita'; vi sarebbe la finalizzazione  dei  risparmi  di  spesa
ottenuti, destinati all'apposito fondo istituito presso l'INPS. 
    Si tratterebbe, dunque, di una forma di riequilibrio «momentanea»
dell'importo  dei  trattamenti  all'interno  dello   stesso   sistema
pensionistico, in quanto  le  somme  prelevate  dai  soggetti  incisi
vengono  acquisite  in  apposito  fondo  presso  l'INPS  e  non  sono
destinate alla fiscalita' generale, come riconosciuto, in fattispecie
analoga,  dalla  stessa  Corte  costituzionale,   secondo   cui   «il
contributo di solidarieta', non potendo essere  configurato  come  un
contributo previdenziale in senso tecnico, va  inquadrato  nel  genus
delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'art.  23
della Costituzione, costituendo una prestazione  patrimoniale  avente
la  finalita'  di  contribuire  agli  oneri  finanziari  del   regime
previdenziale dei  lavoratori,  con  la  conseguenza  che  l'invocato
parametro di  cui  all'art.  53  della  Costituzione  deve  ritenersi
inconferente,  siccome  riguardante  la  materia  della   imposizione
tributaria in senso  stretto»  (Corte  costituzionale,  ordinanza  30
gennaio  2003,  n.  22,  nonche'  ordinanza  n.  160/2007,  meramente
confermativa della precedente). 
    Negli stessi sensi si sarebbe pronunciata anche la  piu'  recente
sentenza, n. 173 del 2016, nel  ritenere  legittimo,  in  quanto  non
riconducibile a un tributo, il prelievo disposto dall'art.  1,  comma
486 della legge n. 147/2013. 
    In conclusione, il sacrificio imposto ai pensionati,  proprio  in
ragione della limitata incidenza temporale,  e  della  finalizzazione
delle risorse alla gestione pensionistica e  non  anche  al  pubblico
erario, non solo non integrerebbe un prelievo tributario, ma  sarebbe
pienamente  rispettoso  dei  precetti   costituzionali   citati   dai
ricorrenti. Il prelievo, in quanto imposto dalla crisi contingente  e
grave del sistema, e incidendo solo sulle pensioni  piu'  elevate  in
misura incontestabilmente sostenibile e, quindi, nel  pieno  rispetto
del principio di  proporzionalita',  rappresenterebbe,  per  espressa
disposizione normativa, una  misura  una  tantum.  A  conferma  della
legittimita' costituzionale della norma censurata da parte attrice e'
stato fatto integrale riferimento alla sentenza n. 194/19 della Corte
dei conti, Sezione giurisdizionale Veneto,  con  la  quale  e'  stata
respinta analoga pretesa,  ritenendosi  manifestamente  infondata  la
prospettata questione di costituzionalita'. 
    All'udienza del 30 gennaio 2020,  il  difensore  dei  ricorrenti,
avvocato  Leone,  ha  depositato  memoria  di  replica  alle   difese
dell'INPS, alla cui acquisizione agli  atti  non  si  e'  opposto  il
rappresentante dell'istituto, illustrandone il  contenuto,  che  puo'
cosi' riassumersi. 
    Non sarebbero  condivisibili  le  affermazioni  dell'istituto  in
relazione alla maggiore equita' perseguita dal legislatore.  Difatti,
tutte le pensioni, sia quelle superiori a 100.000,00 euro, sia quelle
di  importo  inferiore,  sarebbero  state  calcolate  con  lo  stesso
sistema, di talche' nessuna di esse potrebbe assicurare  il  perfetto
equilibrio  tra  pensione  e  contributi.  Non   si   comprenderebbe,
pertanto, perche' solo quelle di importo piu' elevato,  proporzionate
alla quantita' e qualita'  del  lavoro  prestato,  dovrebbero  subire
decurtazioni, anche qualora, come nel caso  dei  ricorrenti,  abbiano
visto contributi versati per molti anni oltre i quaranta,  sui  quali
le pensioni stesse risultano calcolate. 
    Privo di riscontro obiettivo sarebbe,  altresi',  il  riferimento
alla difficile situazione economica in cui versa il  Paese,  elemento
non posto in evidenza alcuna dallo stesso Legislatore, mentre nessuna
finalita' specifica sarebbe riconducibile  al  Fondo  presso  cui  le
somme derivanti dalle decurtazioni sono state accantonate; operazione
questa,  diretta,  ad  avviso  della  difesa  di  parte  attrice,  ad
escludere che al prelievo possa ascriversi natura tributaria. 
    Nel corso della discussione l'avvocato Leone ha  anche  precisato
di non condividere  le  pronunce  emesse  dalla  Sezione  Veneto,  n.
194/2019, e dalla Sezione Calabria, n. 434/2019, con  le  quali  sono
state respinte analoghe pretese e, pur  condividendo  le  censure  di
incostituzionalita' delle norme impugnate, contenute nelle  ordinanze
di rimessione alla Corte  costituzionale,  n.  6/2019  della  Sezione
Friuli-Venezia  Giulia,  e  n.  308/2019  della  Sezione  Lazio,   ha
ulteriormente evidenziato  che  certamente  tali  norme  violano  gli
articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, ma che  non  si  porrebbe  un
problema di adeguatezza alle esigenze di vita,  ma  di  rapporto  tra
contributi versati e attivita' lavorativa svolta. 
    Inoltre, sarebbe stato assolto il dovere di solidarieta'  di  cui
all'art. 2 della Costituzione, attraverso il pagamento  dell'IRPEF  e
degli altri tributi, indiretti, data l'elevata pressione fiscale  che
grava sui redditi di importo elevato, mentre una  reale  applicazione
del principio imporrebbe un'attenta revisione della  spesa  pubblica;
un   vero   e   rigoroso   perseguimento    dell'evasione    fiscale;
l'allargamento della platea dei contribuenti, non  limitabile  a  una
determinata categoria, con  manovre  che  assumerebbero  una  valenza
puramente punitiva. 
    Nel richiamare, infine, la sentenza n. 173/2016 della Consulta  e
i principi ivi affermati al  fine  di  rendere  conformi  alla  Carta
fondamentale eventuali prelievi  sui  trattamenti  pensionistici,  la
difesa dei ricorrenti ha ribadito che la  riduzione  operata  sarebbe
irragionevole e non  sostenibile  e  che  le  disposizioni  impugnate
violerebbero, oltre agli articoli 3, 36 e 38, anche gli  articoli  3,
23 e 42 della  Costituzione,  poiche'  la  riduzione  sine  causa  si
configurerebbe  quale  vero  e   proprio   esproprio   senza   alcuna
giustificazione di pubblica utilita'. 
    L'Avvocato DOA, nell'interesse dell'INPS, ha ribadito che, se  si
analizza la sola norma in questione, l'istituto ha gia'  espresso  in
memoria le proprie considerazioni. La manovra inciderebbe sulle  sole
pensioni elevate, mentre  il  prelievo  avrebbe,  certamente,  natura
transitoria, essendo previsto per soli  cinque  anni.  Ha,  pertanto,
insistito in  via  principale  per  il  rigetto  del  ricorso  e,  in
subordine, per la sospensione del giudizio in attesa della  pronuncia
della Corte costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Come traspare dalla  narrativa  del  fatto,  i  ricorrenti  hanno
chiesto che venga dichiarato il diritto alla integrale corresponsione
del   trattamento   pensionistico,   senza    l'applicazione    della
decurtazione percentuale prevista dall'art. 1, comma 261 della  legge
30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato
per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale  per  il  triennio
2019-2021», ovvero, in subordine, che sia accertato  che  l'INPS  non
possa sottoporre al  prelievo  di  cui  all'art.  1,  comma  261,  le
pensioni  erogate  ai  ricorrenti  se  non   previa   verifica   che,
ricalcolate virtualmente le pensioni con il metodo contributivo,  con
l'utilizzo dei parametri per il tempo in  cui  i  singoli  ricorrenti
sono  stati  collocati  a  riposo,  la  pensione  che  sarebbe  stata
corrisposta non e'  inferiore  a  quella  attualmente  in  godimento,
chiedendo  implicitamente,   per   tale   aspetto,   la   sostanziale
applicazione dell'art. 1, comma 263, della legge richiamata. 
    A tali domande e' connessa  quella  di  condanna  dell'INPS  alla
restituzione delle somme trattenute. 
    Nell'atto  introduttivo   del   giudizio   e'   stata,   inoltre,
prospettata la illegittimita' costituzionale della norma de  qua  per
diversi profili, che verranno partitamente esaminati,  dovendosi  sin
d'ora  precisare  che  le  pretese  avanzate,   qualora   decise   in
conformita'  alle  disposizioni  vigenti,  non   potrebbero   trovare
accoglimento. 
    Per un verso, difatti, e' chiaro il disposto dell'art.  1,  comma
261  della  legge  di  stabilita'  2019,  laddove  ha   previsto   le
decurtazioni mentre, per altro aspetto, la domanda formulata  in  via
subordinata,  sarebbe  priva  di  fondamento,  ponendosi   in   netto
contrasto con  il  disposto  del  successivo  comma  263,  che  nella
formulazione  «secca»   adottata   dal   legislatore,   non   ammette
interpretazioni differenti da quella  fatta  palese  dal  significato
delle parole secondo la connessione di esse (art. 12  preleggi),  non
potendosi, pertanto, dare ingresso  a  diversi  criteri  ermeneutici,
quali quelli implicitamente invocati da parte  attrice  ed  accedere,
per tale via, ad un «ricalcolo virtuale»  delle  pensioni,  liquidate
con il sistema retributivo e/o  misto,  con  l'utilizzo  del  sistema
contributivo. 
    Se dunque, da un lato, non si puo' prescindere, per la  soluzione
della controversia, dall'applicazione delle norme censurate, dal  che
la rilevanza della  prospettata  questione,  ai  sensi  dell'art.  23
secondo comma della legge costituzionale n.  1  dell'11  marzo  1953,
dall'altro le disposizioni da ultimo introdotte con la legge  n.  145
del 30 dicembre 2018 non paiono conformi a diversi principi  espressi
nella  Carta  costituzionale,  di   talche'   la   questione   posta,
considerata nel suo  complesso,  deve  ritenersi  non  manifestamente
infondata. 
    Cio' premesso, nell'esaminare partitamente le  varie  censure  di
incostituzionalita', va rilevato quanto segue. 
    1.   Violazione   dell'art.   23   della    Costituzione,    data
l'inosservanza sostanziale del procedimento di cui all'art. 72  della
Costituzione, a fondamento della quale la difesa  dei  ricorrenti  ha
fatto richiamo al conflitto di attribuzione tra poteri  dello  Stato,
promosso da trentasette senatori, in ragione della grave compressione
dei tempi di discussione della legge, dopo la presentazione, da parte
del Governo, al Senato, del c.d. maxiemendamento n. 1.9000, il  quale
aveva modificato in larga misura il disegno di legge su cui le Camere
avevano lavorato,  senza  che  venisse  dato  modo  alla  Commissione
bilancio di svolgere l'esame di  merito  sul  provvedimento  in  sede
referente. 
    Tali argomentazioni non possono essere condivise. Al riguardo  va
osservato   che   il   principio   di   autonomia    delle    Camere,
costituzionalmente garantito, in particolare dagli articoli 64  e  72
della Costituzione, non ammette un  sindacato  giudiziale  esteso  al
procedimento di formazione e approvazione delle leggi,  ma  consente,
nei limiti apprestati, una legittimazione a  sollevare  conflitto  di
attribuzione  in  capo   agli   appartenenti   alle   Camere,   anche
singolarmente considerati, qualora si  sia  in  presenza  di  atti  e
comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni  dei  singoli
parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei  lavori,
come espressamente ricordato dalla Consulta nell'ordinanza n. 17/2019
dell'8 febbraio 2019, con cui il prefato ricorso e' stato  dichiarato
inammissibile. 
    Orbene,  la  Corte  (cfr.  ordinanza   cit.),   pur   richiamando
l'attenzione  sulla  necessita'  che   il   ruolo   riservato   dalla
Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi
sia  non  solo  osservato  nominalmente,  ma   rispettato   nel   suo
significato   sostanziale,   ha    evidenziato    che    la    prassi
dell'approvazione dei disegni di legge attraverso il voto di  fiducia
apposto su un maxi-emendamento  governativo  si  e'  consolidata  nel
tempo e che se ne e' fatto frequente uso sin dalla meta'  degli  anni
Novanta anche per l'approvazione delle manovre di bilancio  da  parte
dei governi di ogni composizione politica, in cerca di risposte  alle
esigenze  di  governabilita',  riconoscendo  nel  contempo  che   una
perdurante usanza costituisce un fattore  non  privo  di  significato
all'interno del diritto parlamentare, contrassegnato  da  un  elevato
tasso di flessibilita' e di consensualita'. 
    In  definitiva,  non  ha  ravvisato  un  abuso  da  parte   delle
maggioranze a tutela delle attribuzioni  costituzionali  del  singolo
parlamentare,  anche  in  ragione  dell'esistenza  di   due   fattori
concomitanti: da un lato, la lunga interlocuzione con le  istituzioni
dell'Unione europea ha  portato  a  una  rideterminazione  dei  saldi
complessivi della  manovra  economica  in  un  momento  avanzato  del
procedimento parlamentare e ha comportato un'ampia modificazione  del
disegno di legge iniziale e,  dall'altro,  le  riforme  apportate  al
regolamento del Senato della Repubblica nel dicembre 2017 - applicate
al procedimento per l'approvazione del bilancio dello  Stato  per  la
prima volta nel caso di specie. 
    Nessuna lesione dell'art. 23 della Costituzione  puo',  pertanto,
ricollegarsi   alla   mancata   osservanza   del   procedimento    di
formazione/approvazione della legge,  il  quale  opera  sul  distinto
piano   politico   istituzionale,   in   cui    dovrebbero    trovare
conciliazione, in forma pubblica e democratica, i  diversi  interessi
di cui i  rappresentanti  eletti  sono  portatori.  Tale  profilo  di
censura deve, conseguentemente, ritenersi infondato. 
    2.  Diverso  discorso  e'  a  farsi  in  relazione  alla  dedotta
violazione degli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione. 
    Al riguardo, va in primo luogo precisato che analoga questione e'
stata rimessa al sindacato della Consulta con ordinanze n. 6, del  19
ottobre 2019, emessa dalla Sezione giurisdizionale  della  Corte  dei
conti per il Friuli-Venezia Giulia, e n. 308, del  22  ottobre  2019,
adottata dalla Sezione giurisdizionale per il Lazio. 
    I   giudici    remittenti,    con    argomentazioni    pienamente
condivisibili, hanno ritenuto che, al prelievo attuato  dall'art.  1,
commi da 261 a 268, della legge n. 145/2018, sia da ascriversi natura
sostanzialmente tributaria atteso che,  in  concreto:  determina  una
decurtazione patrimoniale arbitrariamente  duratura  del  trattamento
pensionistico, con acquisizione  al  bilancio  statale  del  relativo
gettito,  e  costituisce  un  prelievo  coattivo  correlato  ad   uno
specifico indice di capacita' contributiva, che  esprime  l'idoneita'
del  soggetto   passivo   all'obbligazione   tributaria   (cfr.,   in
particolare, ordinanza n. 6/2019, cit.). 
    Cio' alla luce delle seguenti motivazioni: 
        a) non  risulta  enunciata  alcuna  destinazione  «vincolata»
delle risorse, attinte con l'intervento in discussione,  a  finalita'
solidaristiche  endo-previdenziali,  non  essendo  sufficienti,   ne'
significativi, la previsione dell'accantonamento  in  fondi  tematici
presso gli istituti  previdenziali  coinvolti,  e  il  richiamo  allo
strumento della conferenza di servizi per l'accertamento del  quantum
conseguito (commi 265 e 266); 
        b) non  e'  rinvenibile  alcun  riferimento  in  ordine  alla
destinazione da dare ai risparmi conseguiti sia nel documento redatto
dai Servizi studi e  bilancio  di  Camera  e  Senato,  contenente  la
descrizione ed il commento delle modifiche al  disegno  di  legge  di
bilancio, approvate in  sede  di  esame  al  Senato  (il  quale  atto
richiama il  mero  dato  testuale  della  norma,  per  cui  le  somme
trattenute confluiscono e restano accantonate presso i Fondi  di  cui
all'art. 1, comma 265; cfr. Dossier  23  dicembre  2018  -  legge  di
bilancio 2019 - Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica  -
Il maxiemendamento del Governo 1.9000, pagg.  192  e  ss.),  sia  nel
Dossier sulla legge di  bilancio  2019  della  Camera  dei  deputati,
Servizio bilancio dello Stato (recante Modifiche approvate dal Senato
- dicembre 2018,  pagg.  75  e  ss.),  nel  quale  ultimo  sono  solo
riportati i risparmi attesi,  al  lordo  ed  al  netto  delle  minori
entrate  tributarie,  mentre  il  prelievo  e'  stato  indicato  come
«contributo di solidarieta'», denominazione non riportata  nel  testo
definitivo della legge di bilancio, approvato dal Parlamento, ove  il
contributo e' inserito tout court nella Parte I  Sezione  I,  recante
«Misure   quantitative   per   la   realizzazione   degli   obiettivi
programmati», insieme indistintamente a tutti  gli  altri  interventi
rientranti   nella   manovra   finanziaria   deliberata:   con   cio'
risultandone suffragata  la  connotazione  finanziariamente  «neutra»
(cfr., sempre, ordinanza n. 6/2019); 
        c) ancora, l'analisi della composizione e degli  effetti  sui
saldi di  finanza  pubblica  della  manovra  di  bilancio  2019/2021,
contenuta nel Dossier sulla Manovra di  bilancio  2019-2021,  redatto
nel gennaio 2019, ovvero dopo l'approvazione della legge n.  145/2018
(cfr. Servizio bilancio del Senato e Servizio  bilancio  dello  Stato
della Camera, - Effetti  sui  saldi  e  conto  risorse  e  impieghi),
riporta in apposito quadro aggiornato  l'indicazione  del  definitivo
livello delle spese previste: tra queste la riduzione dei trattamenti
pensionistici e' semplicemente indicato come intervento di  riduzione
della spesa (come «minor adeguamento delle pensioni di  importo  piu'
elevato» e «riduzione dei trattamenti  pensionistici  piu'  elevati»,
senza alcuna  caratterizzazione  teleologica)  e,  in  tali  termini,
rappresentato  nella  pertinente  tabella  illustrativa  dell'impatto
finanziario  di  ciascuna  misura  (qui  indicato  come   «contributo
pensioni di importo piu' elevato», mentre nella  tabella  che  espone
gli interventi previsti dalla manovra di bilancio e i relativi  mezzi
di copertura, le misure a carico delle  pensioni  piu'  elevate  sono
comprese tra questi ultimi (in questi sensi, ordinanza n. 6/2019); 
        d) tali aspetti,  unitamente  al  carattere  complessivamente
«espansivo» della manovra di bilancio per il 2019 (e per il  triennio
fino al  2021)  per  il  comparto  previdenziale,  in  ragione  della
introdotta riforma dei requisiti di accesso alla pensione (c.d. quota
100), fanno conclusivamente  ritenere  che  le  riduzioni  non  siano
ricollegabili   ad   una   situazione   emergenziale   del    sistema
pensionistico, ma si configurino come previsioni volte ad individuare
mezzi  di  copertura  aggiuntivi  delle  spese   pubbliche   mediante
imposizione, tuttavia, di un prelievo «selettivo» a carico di  alcune
categorie  di  pensionati.  Conclusione,  questa,  avvalorata   dalla
previsione della durata quinquennale del  prelievo,  protratta  oltre
l'arco temporale di  sviluppo  della  programmazione  pluriennale  di
bilancio, con la prospettiva di un piu'  marcato  consolidamento  nel
tempo degli effetti di decurtazione delle pensioni piu' elevate,  che
risponde ad una logica di tendenziale revisione in  pejus  definitiva
di tali trattamenti e rende, dunque, non solo significativamente piu'
incisiva la lesione dei  diritti  patrimoniali  dei  destinatari,  ma
anche piu' marcato l'effetto discriminatorio rispetto ai non  incisi,
a parita' di condizioni reddituali. 
    Per  tali  profili,  dunque,  e'  stato  ritenuto  che  la  norma
censurata si  appalesi  confliggente  con  i  principi  di  cui  agli
articoli 3 e 53  della  Costituzione,  gravando  soltanto  su  alcune
categorie di pensionati e non su tutti i cittadini, in violazione dei
fondamentali  canoni  di  uguaglianza  a  parita'  di  reddito  e  di
universalita' dell'imposizione, non avendo i  redditi  derivanti  dai
trattamenti pensionistici,  una  natura  diversa  e  minoris  generis
rispetto  agli  altri  redditi   presi   a   riferimento,   ai   fini
dell'osservanza  dell'art.  53  della  Costituzione,  il  quale   non
consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi  da
lavoro (cfr. sentenze n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013). 
    Peraltro,  ad  avviso  di  questo  Giudice,  qualora  si  volesse
escludere la natura tributaria delle misure adottate, il prelievo  in
tal guisa operato si porrebbe, comunque, in contrasto con i  precetti
di cui agli articoli 3, 23  e  53  della  Costituzione,  non  potendo
invocarsi la natura solidaristica  del  prelievo,  ex  art.  2  della
Costituzione. 
    A escludere siffatta evenienza appare  sufficiente  il  raffronto
tra le disposizioni di cui all'art. 1,  comma  486,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, ritenute conformi a Costituzione (sentenza  13
luglio 2016, n. 173), e le norme oggetto di censura in questa sede. 
    Il Legislatore del 2013 aveva cosi' disposto: a decorrere dal  1°
gennaio 2014 e  per  un  periodo  di  tre  anni,  sugli  importi  dei
trattamenti pensionistici corrisposti da enti  gestori  di  forme  di
previdenza  obbligatorie  complessivamente  superiori  a  quattordici
volte  il  trattamento  minimo  INPS,  e'  dovuto  un  contributo  di
solidarieta' a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, pari
al 6 per cento della parte eccedente il predetto importo lordo  annuo
fino all'importo lordo annuo di venti  volte  il  trattamento  minimo
INPS, nonche' pari al 12 per cento per la parte  eccedente  l'importo
lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS  e  al  18  per
cento per la parte eccedente l'importo lordo annuo di trenta volte il
trattamento minimo INPS. Ai  fini  dell'applicazione  della  predetta
trattenuta  e'  preso  a  riferimento  il  trattamento  pensionistico
complessivo lordo per l'anno considerato. L'INPS, sulla base dei dati
che risultano dal casellario centrale dei pensionati,  istituito  con
decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, e'
tenuto a fornire a tutti gli enti interessati  i  necessari  elementi
per l'effettuazione della trattenuta del contributo di  solidarieta',
secondo modalita' proporzionali  ai  trattamenti  erogati.  Le  somme
trattenute vengono acquisite dalle competenti gestioni  previdenziali
obbligatorie, anche  alfine  di  concorrere  al  finanziamento  degli
interventi di cui al comma 191 del presente articolo». 
    Traspare, dal dato testuale della norma, che  il  prelievo  aveva
riguardato tutte le forme di previdenza obbligatorie,  ed  era  stato
disposto anche per concorrere al finanziamento  degli  interventi  in
favore dei c.d. «esodati» (come si evince dal richiamo, contenuto nel
comma 191 della legge n. 147/2013, all'art. 1, commi 231 e 233, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228). 
    Tali aspetti sono valsi ad escludere la  natura  di  tributo  del
contributo di solidarieta', in quanto non acquisito allo Stato e  non
destinato  alla  fiscalita'  generale,  ma   prelevato   direttamente
dall'INPS e  dagli  altri  enti  previdenziali,  che  lo  trattengono
all'interno  delle  proprie   gestioni   con   specifiche   finalita'
solidaristiche endo-previdenziali. 
    E' stato, altresi', affermato che il contributo di  solidarieta',
rispondeva  a   criteri   di   ragionevolezza   e   proporzionalita',
trattandosi di  misura  contingente,  straordinaria  e  temporalmente
circoscritta; infine, «incidendo in base ad aliquote  crescenti  (del
6, 12 e 18 per cento), secondo una misura che rispetta il criterio di
proporzionalita' e,  in  ragione  della  sua  temporaneita',  non  si
appalesa di per se' insostenibile, pur innegabilmente comportando  un
sacrificio per i titolari di siffatte  pensioni»  (cfr.  sentenza  n.
173/2016, cit.). 
    Le disposizioni di cui all'art. 1, commi 261-268, della legge  30
dicembre 2018 n. 145, non paiono aver rispettato tali criteri. 
    Difatti,  in  primo   luogo,   la   riduzione   dei   trattamenti
pensionistici non riguarda  «tutti  gli  enti  gestori  di  forme  di
previdenza   obbligatoria»,   essendo   limitata    ai    trattamenti
pensionistici  diretti  a  carico  del  Fondo   pensioni   lavoratori
dipendenti, delle gestioni speciali dei  lavoratori  autonomi,  delle
forme  sostitutive,  esclusive  ed   esonerative   dell'assicurazione
generale obbligatoria e della Gestione separata di  cui  all'art.  2,
comma 26, della legge 8 agosto  1995,  n.  335  (cfr.  comma  261)  e
rimanendo,   pertanto,   esentati   dal   prelievo:   a)   i   liberi
professionisti, in quanto titolari di trattamenti erogati dagli  enti
previdenziali di diritto privato, istituiti con  decreto  legislativo
30 giugno 1994, n. 509, nonche' tutti i soggetti titolari di pensioni
da totalizzazione o da cumulo, nelle quali sia presente anche un solo
periodo  contributivo  a  carico  delle  Casse  professionali   (cfr.
circolare n. 116 del 9 agosto 2019, emessa dall'INPS); b) i  titolari
di pensione interamente calcolata con il sistema  contributivo,  cfr.
comma 263; c) i titolari di pensioni di invalidita' ed i  trattamenti
pensionistici di invalidita' di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222
(comma 268); d) i titolari di trattamenti pensionistici  riconosciuti
ai superstiti (comma 268); e) i titolari di trattamenti  riconosciuti
a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche,  di  cui
alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206
(comma 268); tali ultime categorie, a prescindere dalle modalita'  di
calcolo, se contributivo o retributivo, del trattamento goduto. 
    In secondo luogo,  va  ribadito  che,  come  gia'  precisato,  e'
mancata del tutto la individuazione dello scopo del prelievo,  ovvero
la sua destinazione a fini  endo-previdenziali  (tale  non  potendosi
considerare il semplice accantonamento  di  cui  al  comma  265),  di
talche' tali somme parrebbero destinate a confluire nella  fiscalita'
generale,   circostanza    avvalorata    dagli    atti,    successivi
all'approvazione della legge, predisposti congiuntamente dal Servizio
del bilancio del Senato e dal Servizio bilancio dello Stato,  cui  si
e' gia' fatto riferimento (cfr. Dossier intitolato «Effetti sui saldi
e conto risorse e impieghi, del gennaio 2019, il quale, alla  Tabella
8,  nello  specificare  i   «Principali   interventi   e   mezzi   di
finanziamento», ricomprende  tra  i  «mezzi  di  copertura»  la  voce
«Misure sulle pensioni piu' elevate»). 
    Inoltre, come  correttamente  posto  in  luce  dalla  difesa  dei
ricorrenti, non parrebbe sussistere la situazione di grave crisi  del
sistema pensionistico, indotta da vari fattori - endogeni ed esogeni,
da ponderarsi attentamente, che consente di derogare al principio  di
affidamento in ordine al mantenimento del  trattamento  pensionistico
gia' maturato (tra le altre, sentenze n. 69  del  2014,  n.  166  del
2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002). 
    Difatti, a fronte  del  prelievo  imposto,  sono  state  adottate
misure espansive della pubblica spesa e, in particolare nel  comparto
previdenziale,  con  il  D.L.  28  gennaio  2019,   n.   4,   recante
Disposizioni urgenti in materia  di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni, convertito in legge, con modificazioni dall'art.  1,  comma
1, legge 28 marzo 2019, n. 26  che,  nel  riformare  i  requisiti  di
accesso alla pensione, ha consentito un significativo  aumento  degli
aventi diritto al collocamento in quiescenza, con  conseguenti  oneri
per il bilancio statale, per la cui  copertura  sono  stati  previsti
stanziamenti annuali per il 2019, di euro  4.719,1  milioni,  per  il
2020, di euro 8.717,1 milioni e, infine, per il 2021, di euro 9.266,5
milioni (cfr. art. 28, decreto-legge richiamato). 
    Infine, forti dubbi sussistono sul carattere della  temporaneita'
del contributo, sia in ragione della  eta'  dei  ricorrenti  e  della
durata del  prelievo,  pari  a  cinque  anni,  sia  alla  luce  degli
interventi,  susseguitisi  negli  anni,  diretti   a   incidere   sui
trattamenti pensionistici elevati, tra i quali vanno  annoverati:  a)
l'art. 37 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, che aveva  introdotto
un contributo di solidarieta' nella misura del 2 per cento. Le  somme
cosi' prelevate confluivano in un fondo, di cui alla legge n. 196 del
1997 (articoli 5 e 9, comma 3), per  la  copertura  previdenziale  di
lavoratori in formazione; b) la legge 24 dicembre 2003, n.  350  che,
all'art. 3, comma 102 prevedeva, per  un  periodo  di  tre  anni,  un
contributo di solidarieta' nella misura del 3 per cento; c) la  legge
di conversione del decreto-legge 6  luglio  2011,  n.  98  (legge  15
luglio 2011, n. 111)  che,  in  considerazione  della  eccezionalita'
della  situazione  economica  internazionale  e  tenuto  conto  delle
esigenze prioritarie di raggiungimento  degli  obiettivi  di  finanza
pubblica, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre  2014,
disponeva un contributo di perequazione, a decorrere  dal  1°  agosto
2011 e fino  al  31  dicembre  2014,  pari  al  5  per  cento  per  i
trattamenti pensionistici superiori a 90.000 euro lordi annui fino  a
150.000 euro, nonche' pari al 10 per cento  per  la  parte  eccedente
150.000 euro; tale soglia veniva elevata al  15  per  cento,  per  la
parte eccedente 200.000 euro, con il decreto-legge 6  dicembre  2011,
n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre  2011,
n. 214 (la norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima con
la sentenza n. 116 del 2013); d) il decreto-legge 13 agosto 2011,  n.
138 (convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011,  n.
148), che aveva introdotto un contributo di solidarieta'  del  3  per
cento per i redditi complessivi di importo superiore a  300.000  euro
lordi annui, sulla parte eccedente il predetto importo,  a  decorrere
dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013; la misura veniva  poi
prorogata al 31 dicembre 2016 con la legge n. 147 del 2013 (legge  di
stabilita' per il 2014); la stessa legge, art. 1, commi  486  e  487,
prevedeva, a decorrere dal 10 gennaio 2014 e per un  periodo  di  tre
anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti
gestori  di  forme  di  previdenza   obbligatorie,   complessivamente
superiori  a  quattordici  volte  il  trattamento  minimo  INPS,   un
contributo di solidarieta'  a  favore  delle  gestioni  previdenziali
obbligatorie.  La  norma  veniva   impugnata   davanti   alla   Corte
costituzionale che, con sentenza n.  173  del  2016,  dichiarava  non
fondate le questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,
comma   486,   e   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale del comma 487. 
    Il riferito  quadro  normativo  rafforza  l'eventualita'  che  le
decurtazioni via  via  attuate  sui  trattamenti  pensionistici  piu'
elevati vadano assumendo una connotazione di stabilita', venendo  per
tale via a costituire una delle fonti di  finanziamento  del  sistema
previdenziale o,  financo,  della  fiscalita'  generale,  attuata  in
maniera non conforme ai dettami costituzionali di cui  agli  articoli
3, 23 e 53 della Costituzione. 
    In conclusione, anche a voler  ascrivere  al  prelievo  in  esame
natura di prestazione patrimoniale imposta per legge, in  conformita'
al modello  di  cui  all'art.  23  della  Costituzione,  le  relative
disposizioni normative confliggerebbero, comunque, con i principi  di
ragionevolezza  e  proporzionalita',  in   virtu'   dello   scrutinio
«stretto» di  costituzionalita',  che  vuole  che  il  contributo  di
solidarieta' debba: operare all'interno del complessivo sistema della
previdenza; essere  imposto  dalla  crisi  contingente  e  grave  del
predetto sistema; incidere sulle pensioni piu' elevate  (in  rapporto
alle  pensioni  minime);  presentarsi  come   prelievo   sostenibile;
rispettare  il  principio  di   proporzionalita';   essere   comunque
utilizzato come misura una tantum (sentenze nn.  223/2012;  116/2013;
173/2016). 
    3. Violazione degli articoli 3, 23, 36 e 38 della Costituzione. 
    Sempre a voler escludere la natura tributaria del  prelievo,  non
verrebbero meno i dubbi di costituzionalita'  della  misura  adottata
anche per altro aspetto. 
    Difatti, atteso il nesso inscindibile esistente tra gli  articoli
36,  comma  1,  e  38,  comma  2  della  Costituzione,   ovvero   tra
retribuzione (legata alla quantita' e qualita' del lavoro prestato) e
pensione,  ancorata  alla  retribuzione  percepita  in  costanza   di
servizio, il legislatore deve operare un corretto  bilanciamento  tra
gli interessi  contrapposti,  previa  un'adeguata  valutazione  della
situazione finanziaria, basata su dati oggettivi, tutte le  volte  in
cui  si  voglia  conseguire  un  risparmio  di   spesa   in   materia
pensionistica (Corte costituzionale sentenza n. 250 del  2017),  data
l'esigenza fondamentale  di  bilanciare  la  garanzia  del  legittimo
affidamento nella sicurezza giuridica, da una parte, con altri valori
costituzionalmente rilevanti, dall'altra (cfr.  Corte  costituzionale
30 aprile 2015, n. 70). 
    Nel caso in  esame  tale  valutazione  sembra  essere  del  tutto
assente, non emergendo dai lavori preparatori della legge n. 145/2018
una  adeguata  ponderazione  delle  esigenze   finanziarie,   e   non
risultando evidenziate le ragioni che ne giustifichino la  prevalenza
sui diritti oggetto di bilanciamento. 
    Ma anche a voler riconoscere la sottesa esigenza di «una maggiore
equita' del sistema previdenziale» (cfr. documento  di  Aggiornamento
del quadro macroeconomico e di  finanza  pubblica  -  Dicembre  2018,
predisposto dal MEF, «Misure  correttive  per  il  conseguimento  dei
nuovi obiettivi»), innegabile appare che questa sia stata  perseguita
attraverso strumenti che, limitando le misure restrittive  ad  alcune
categorie di pensionati, si appalesano non rispettosi dei criteri  di
proporzionalita' e ragionevolezza di cui all'art. 3 Costituzione. 
    Difatti, se lo scopo  del  Legislatore  andasse  ricercato  nella
necessita' di ricondurre il sistema previdenziale ad  un  sostanziale
equilibrio tra contributi versati e pensione percepita,  si  dovrebbe
tenere nel debito conto,  come  correttamente  argomentato  da  parte
attrice,  della  contribuzione  effettivamente  versata   nel   corso
dell'attivita' lavorativa. 
    Ragioni  di  equita'   e   di   giustizia   sostanziale,   cioe',
imporrebbero una valutazione non  in  base  al  criterio  di  calcolo
utilizzato per determinare il trattamento pensionistico, ma  in  base
alla corrispondenza tra contribuzione versata e  pensione  percepita,
rimanendo  irrazionale  e   discriminatorio   il   diverso   criterio
utilizzato dal legislatore, che prescinde totalmente dalla durata del
rapporto lavorativo e, appunto, dalla contribuzione versata. 
    Se, infatti, il sistema  di  calcolo  contributivo  assicura  una
effettiva rispondenza tra contributi versati  e  pensione  percepita,
non puo' assiomaticamente affermarsi che,  per  contro,  la  pensione
calcolata con il sistema retributivo si traduca, sempre  e  comunque,
in  un  trattamento  di  miglior  favore  per   il   pensionato.   In
particolare, nel caso di specie, tenuto conto dell'eta' media in  cui
i ricorrenti sono stati  collocati  in  quiescenza,  e  della  durata
dell'attivita' lavorativa espletata (da tal uno per  oltre  cinquanta
anni), e' lecito  presumere  che  la  pensione  percepita  sia  stata
preceduta dal versamento di idonea e sufficiente contribuzione. 
    A smentire siffatto preconcetto, valga  altresi'  l'introduzione,
nell'ordinamento, dell'art. 1, comma 707, della legge n. 190/2014, il
quale ha stabilito che il passaggio al sistema contributivo, previsto
dalla «riforma Fornero», non puo' comportare il riconoscimento di  un
importo  di  pensione  superiore  a  quello  che   sarebbe   spettato
applicando il previgente sistema di calcolo retributivo (anche per le
pensioni, eventualmente, gia' liquidate, come disposto dal successivo
comma 708). 
    Stridente appare il contrasto con gli  insegnamenti  della  Corte
costituzionale, in  forza  dei  quali  qualunque  riforma,  mirata  a
puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno  previdenziale  ai
piu' deboli, anche in  un'ottica  di  mutualita'  intergenerazionale,
deve essere assistita  da  quella  incontestabile  ragionevolezza,  a
fronte della quale soltanto puo' consentirsi di derogare (in  termini
accettabili) al principio di affidamento in  ordine  al  mantenimento
del trattamento pensionistico gia' maturato (sentenze n. 69 del 2014,
n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis). 
    Sotto  altro  profilo,  non  puo'  essere  dimenticato   che   un
contributo sulle  pensioni,  che  non  deve  essere  sganciato  dalla
realta' economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono  partecipi
e consapevoli, deve costituire una misura del tutto eccezionale,  nel
senso che non puo' essere ripetitivo e tradursi in un  meccanismo  di
alimentazione del sistema di previdenza. Seppure, per essere solidale
e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale  dell'art.
38 della Costituzione, non puo' che essere diretto ad incidere  sulle
pensioni piu' elevate, ma tale incidenza  deve  essere  contenuta  in
limiti di sostenibilita' e non  superare  livelli  apprezzabili:  per
cui, le aliquote di prelievo non possono essere  eccessive  e  devono
rispettare il principio  di  proporzionalita',  che  e'  esso  stesso
criterio, in se', di ragionevolezza della misura  (cfr.  sentenza  n.
173 del 2016). 
    Orbene, ritiene lo scrivente giudice che, nel  caso,  sia  venuta
meno  anche  la  tutela  della  proporzionalita'  e  dell'adeguatezza
(articoli 36 e 38 della Costituzione), posto che il prelievo  attuato
incide  con  percentuali  importanti,  ben  piu'  elevate  di  quelle
previste  nel  corso   degli   anni   precedenti,   sui   trattamenti
pensionistici  in  considerazione  (l'aliquota  di  riduzione  varia,
difatti, dal 15 al 40 per cento). 
    Il prelievo  che,  per  quanto  finora  argomentato,  non  appare
correlato  ne'  a  particolari   esigenze   finanziarie,   ne'   alla
salvaguardia  della   sostenibilita'   del   sistema   previdenziale,
compromessa in maniera ben piu'  elevata  dalle  contestuali  riforme
inerenti il requisito di accesso alla pensione (cd quota 100),  nella
sostanza altera  in  maniera  consistente  il  nesso  di  tendenziale
equilibrio che deve sussistere tra le pensioni,  da  un  lato,  e  le
retribuzioni e la contribuzione versata dall'altra. 
    Pur  se  non  deve   ritenersi   sussistente   un   rapporto   di
indefettibile corrispondenza tra le pensioni e le retribuzioni e  tra
le  pensioni  e  l'ammontare  della  contribuzione  versata,  ma  una
tendenziale correlazione, che salvaguardi l'idoneita' del trattamento
previdenziale a soddisfare le esigenze  di  vita  (cfr.  sentenza  n.
104/2018 del 23 maggio 2018), non appare consentita, in  ragione  dei
dettami della Costituzione, una  definitiva  compromissione  di  tale
correlazione. 
    Difatti,  l'art.  36   della   Costituzione,   applicabile   alle
prestazioni previdenziali per il tramite  e  nella  misura  tracciata
dall'art. 38 della Costituzione,  costituisce  il  parametro  per  la
valutazione delle esigenze di vita, in cui vanno ricompresi non  solo
«i bisogni elementari e vitali», ma anche  le  esigenze  relative  al
tenore di vita conseguito dallo  stesso  lavoratore  in  rapporto  al
reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di
appartenenza, per  effetto  dell'attivita'  lavorativa  svolta  (cfr.
sentenza 7 luglio 1986, n. 173, richiamata  da  Corte  costituzionale
sentenza 7 dicembre 2017, n. 259, del 1° dicembre 2017). 
    Risultano conseguentemente lesi i principi posti  dagli  articoli
2, 3, 36 e 38 della Costituzione, che impongono la  preservazione  di
un rapporto di corrispondenza tra pensioni e  retribuzioni,  mediante
meccanismi  di  raccordo  atti  a  scongiurare  il  rischio   di   un
irragionevole   scostamento,   sintomatico   dell'inadeguatezza   del
trattamento previdenziale corrisposto (sentenza  n.  226  del  1993),
giacche' il prelievo: incide sulle situazioni  sostanziali  poste  in
essere da leggi precedenti, frustrando l'affidamento  del  pensionato
nella certezza  delle  situazioni  giuridiche  acquisite;  incide  su
redditi  ormai  consolidati  nel  loro  ammontare,  e  percepiti   da
cittadini rispetto  ai  quali  non  risulta  piu'  possibile  neppure
ridisegnare sul piano sinallagmatico il  rapporto  di  lavoro»  (cfr.
sentenza del 5 giugno 2013, n. 116); data la durata quinquennale e la
sequenza  dei  provvedimenti  che  lo  hanno  preceduto,   non   pare
rispettare il  requisito  della  «temporaneita'»,  indicato  come  un
elemento  essenziale,  ai  fini   del   rispetto   dei   criteri   di
proporzionalita' e ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  Costituzione
(sentenza n. 173/2016 cit.); impone un sacrificio  ad  una  ristretta
cerchia di soggetti, in maniera ingiustificata e discriminatoria, che
si rivela impropriamente sostitutivo di un intervento  di  fiscalita'
generale nei confronti di tutti i cittadini (ordinanza Sezione Friuli
n. 6/2019, cit.); incide, in modo consistente  e  non  proporzionato,
sui trattamenti pensionistici, cosi'  consistentemente  alterando  la
tendenziale correlazione tra retribuzione e pensione. 
    Si impone, infine, un'ultima notazione. 
    La norma sospettata di incostituzionalita' giunge al  termine  di
una  lunga  sequenza  di  provvedimenti  diretti  ad   incidere   sui
trattamenti pensionistici elevati, in  ordine  ai  quali  il  Giudice
delle leggi si e' plurime volte pronunciato, dettando e  individuando
principi e criteri idonei  a  circoscrivere  e  rendere  conformi  ai
dettami  della  Carta  costituzionale  gli  interventi  in   subiecta
materia, criteri da ultimo compiutamente. delineati nella sentenza n.
173 del 2016. 
    E' stato cosi' ribadito che,  affinche'  un  intervento  ablativo
possa  essere   configurato   come   sicuramente   ragionevole,   non
imprevedibile    e    sostenibile,    debba    operare    all'interno
dell'ordinamento previdenziale, come misura di solidarieta'  «forte»,
mirata  a  puntellare  il  sistema  pensionistico,  e   di   sostegno
previdenziale ai  piu'  deboli,  anche  in  un'ottica  di  mutualita'
intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave  crisi
del sistema stesso, indotta da vari  fattori -  endogeni  ed  esogeni
...che devono essere oggetto di attenta  ponderazione  da  parte  del
legislatore,   in   modo   da   conferire    all'intervento    quella
incontestabile ragionevolezza, a fronte  della  quale  soltanto  puo'
consentirsi di derogare (in  termini  accettabili)  al  principio  di
affidamento in ordine al mantenimento del  trattamento  pensionistico
gia' maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n.  302  del
2010, n. 446 del 2002, ex plurimis). 
    Orbene, alla luce di tali criteri pare possibile ravvisare, nelle
decurtazioni operate dall'art. 1, comma 261, della legge n. 145/2018,
anche la violazione dell'art. 136 primo comma della Costituzione, con
elusione del giudicato costituzionale, rinvenibile non solo quando il
legislatore emana una norma che costituisce una  «mera  riproduzione»
(sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012) di quella  gia'  ritenuta
lesiva della Costituzione, ma anche se la  nuova  disciplina  mira  a
«perseguire  e  raggiungere,   «anche   se   indirettamente»,   esiti
corrispondenti» (cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 73 del  2013,
n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966). 
    Difatti, il disposto prelievo non pare conforme  ai  principi  di
ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale,  oggetto
di  uno  scrutinio  «stretto»  di  costituzionalita';  non   appaiono
individuate condizioni atte a configurare l'intervento ablativo  come
sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile; non  appare
diretto  a  puntellare  il  sistema  pensionistico,  e  di   sostegno
previdenziale ai  piu'  deboli,  anche  in  un'ottica  di  mutualita'
intergenerazionale; non  risulta  essere  stato  oggetto  di  attenta
ponderazione da parte del legislatore;  non  si  palesa  come  misura
improntata effettivamente alla solidarieta' previdenziale, ne'  quale
misura una tantum. 
    Alla luce di tutte le argomentazioni che precedono,  il  presente
giudizio, non potendo essere  definito  nel  merito,  se  non  previa
risoluzione   delle    prospettate    questioni    di    legittimita'
costituzionale, deve essere sospeso, con rimessione degli  atti  alla
Corte costituzionale.